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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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martedì 9 aprile 2024

Fattori Endogeni nella crisi organizzativa

 


 Ten. cpl. Art. Pe.  Sergio  Benedetto  Sabetta

 

            Appare incontrovertibile che i fattori di crisi possono essere sia esogeni che endogeni, ma è opportuno soffermarsi sugli aspetti interni in particolare personali, i quali sono i più subdoli e difficili da individuarsi vista l’adattabilità degli interessati.

            Si deve tenere presente che come in un organismo vivente ospite il virus, una volta entrato, si libera del proprio involucro, scopre i propri geni e induce l’ospitante a fabbricare le proteine virali da assemblare, altrettanto avviene con le persone negli ambienti lavorativi dove esplicando la loro personalità più recondita possono indurre a cambiamenti comportamentali opportunistici le persone con cui sono in contatto, circostanza ancor più devastante se coloro che influenzano sono di livello superiore.

            Dobbiamo considerare che solo la presenza di un sistema complesso, ossia l’interagire delle persone in un ambiente strutturato, permette ai soggetti portatori di valori negativi per l’organizzazione di esplicare le proprie funzioni, in quanto tali soggetti acquistano consapevolezza solo agendo su altri.

            La loro virulenza si manifesta non prima di avere raggiunto una determinata densità, in altre parole dopo aver modificato o creato le opportune colleganze, come nei biofilm i microrganismi subiscono trasformazioni tali da indurli a specializzarsi, così nelle organizzazioni i gruppi patogeni aggressivi tendono a specializzarsi creando strutture interne e parassitarie rispetto alla vera e propria organizzazione, non evidenti ai normali osservatori esterni, necessita, pertanto, in primo luogo tentare di ostacolare il dialogo fra tali agenti per impedire il formarsi dei biofilm negativi o, se già costituiti, alterare la comunicazione per disaggregarli.

            Principio fondamentale è che gli esseri umani, come tutti i microorganismi, diventano sociali superando l’individualismo nell’uso delle risorse solo in presenza di loro scarsità o difficoltà nell’acquisizione tali da creare ostacoli nella propria affermazione.

            Deve tuttavia riconoscersi la notevole importanza collaterale che queste figure negative hanno nell’evoluzione organizzativa.

            Permettono di accelerare e rendere più facile la selezione strutturale attraverso eventi endogeni, anzi che esogeni, i quali possono agire più lentamente, quest’ultima osservazione porta a valutare le conseguenze dell’azione perniciosa per l’organizzazione in termini di immunità acquisita, come memoria e relativa reazione per l’aggressione subita, ma anche come trasferimento di conoscenze presso altre strutture a seguito della morte dell’organizzazione aggredita, costituendo pertanto i mattoni per una ricombinazione adattiva in strutture diverse.

            Se un’organizzazione si avvita su se stessa senza reagire, significa semplicemente che non possiede le risorse necessarie per una sua evoluzione e che sarà opportuno, anzi liberare le risorse umane più efficienti così bloccate per una nuova migliore strutturazione.

            In realtà uno dei segnali maggiori, che possiamo dire riassuntivo, del malessere organizzativo è il venire meno della simmetria, quale equilibrio nella crescita delle parti e nella distribuzione delle risorse. Il malessere ambientale a cui si va incontro non è altro che l’arroganza e il prevalere di una parte sulle altre, si crea una struttura virtuale in cui il crollo avviene in forma progressivamente accelerata attraverso un meccanismo di circuiti di rinforzo fino al limite di rottura, a meno di riuscire a esternalizzare i costi crescenti dell’inefficienza strutturale attraverso fenomeni monopolistici o accordi politico/amministrativi.

            La traiettoria non sarà certa ma probabile secondo previsioni su valori medi, in quanto, sebbene non accessibili i dati dei singoli componenti del sistema, quello che importa sono le variabili macroscopiche che riguardano il comportamento del sistema come un tutto.

domenica 31 marzo 2024

L'Europa nell'attuale conflitto Globale

 

L’ EUROPA  NELL’ATTUALE  CONFLITTO  GLOBALE

Ten. cpl. Art. Pe. Sergio Benedetto  Sabetta

         Dopo due anni di conflitto in Ucraina si manifesta sempre più in termini geo-strategici la rete di alleanze e le tensioni nelle faglie che dividono le varie placche in cui si è suddiviso il globo, seguendo sia gli interessi economici dei vari attori che le culture nate dalla storia delle singole comunità.

            Gli USA  hanno più volte chiaramente fatto intendere la loro volontà di non superare una certa soglia nel coinvolgimento in Ucraina, un fronte secondario rispetto al Pacifico, all’Oceano Indiano e al Medio Oriente, richiamando gli alleati europei ad un loro maggiore coinvolgimento.

            Il Congresso, con le forniture di armi a Kiev sempre più limitate, a dicembre ha negato ulteriori finanziamenti, mentre si è entrati nell’anno delle elezioni dove si evidenziano i contrasti sempre più duri all’interno della Nazione.

            D’altronde il conflitto armato si è allargato dallo scorso ottobre al Medio Oriente, dal Mar Rosso alla Siria, Iraq e Libano, mentre tensioni sempre crescenti si accumulano nel Sud America, dove il Venezuela minaccia di occupare territori della Guyana ricchi di giacimenti di idrocarburi e gas ed il Brasile simpatizza con la Russia.

            La diplomazia russa a sua volta cerca una sponda, con la visita di Putin, negli Emirati Arabi e nell’Arabia Saudita, mediando con l’Iran, un fronte che mette in difficoltà gli USA mentre la Cina aumenta la pressione su Taiwan (16, Putin negli Emirati e a Riad: offensiva su petrolio e alleanze, il Sole 24 Ore, 7/12/23, n. 337), con la Turchia che mira a ricostituire una propria sfera di influenza in Medio Oriente sulle orme dell’ex Impero Ottomano.

            L’Europa in questo scenario risulta piuttosto in difficoltà, a sua volta l’Italia l’unico Paese del G7 a firmare un’intesa con la Cina per la Via della Seta nello scorso dicembre ha annunciato ufficialmente la sua uscita  alla scadenza nel marzo 2024.

            Se gli strateghi americani saldano il Quad (intesa India, Australia e Giappone) con la NATO per il contenimento delle ambizioni della Cina, in Europa la Germania, principale attore al centro del Continente e fortemente impegnata economicamente in Cina è in difficoltà, sia in termini finanziari che industriali, rischiando la tenuta sociale in caso di crisi (265, G. Cristini, La Germania teme per la tenuta del fronte interno, in La Guerra Grande, Limes, 7/2022).

            Questo comporta un atteggiamento ondivago della Germania, abituata dal dopoguerra  a concentrarsi sui soli aspetti economici, tralasciando quelli geo-strategici di competenza anglosassone, con sfumature francesi.

            Emerge una “vaghezza dell’Occidente collettivo, né occidentale né collettivo” (11, Editoriale Storia dell’Ucraina, in Lezioni Ucraine, Limes, 5/2023), quando vi è una perdita del senso del pericolo che scatta alla terza generazione di non-guerra, con la perdita della memoria viva dei reduci, aggravata dall’attuale appiattimento mediatico del social in un chicche riccio da osteria come sottolineava Umberto Eco.

            La crisi di identità strategica di Berlino, dove solo un giovane su dieci sarebbe pronto a difendere la patria, evidenzia ulteriormente la faglia Est-Ovest (147, G. Mariotto, La Germania inerte, in Il Bluff globale, Limes, 4/2023).

            La crisi del modello neoliberista nato con la fine della Guerra Fredda per cui vi è la sacralità dei mercati e del libero commercio ha condotto al recupero della visione ha miltoniana, dove l’intervento dello Stato a supporto dell’innovazione e della politica industriale è fondamentale per mantenere la superiorità USA a livello mondiale, con particolare riferimento alla Cina.

            Contrapposto al precedente approccio di   Hamilton nella sostituzione del modello neoliberista vi è quello protezionista nazionalista trumpiano, dove l’obiettivo degli Stati Uniti non è proteggere i mercati mondiali ma quelli nazionali, una visione molto popolare negli USA che si affianca all’idea dei progressisti di una semplice autosufficienza USA.

            In Europa si è affermata la pratica del green equity, che concentra l’attenzione sulle politiche sociali, usando la politica industriale solo quale strumento, indipendentemente dalle problematiche economiche e di competitività tecnologica, dei massimalismi che possono portare all’aggravarsi della frammentazione europea con una ulteriore perdita di rilevanza politica ed economica nello scacchiere mondiale, divenendo delle semplici pedine (123, R. D. Atkinson, Il mondo deve restare americano, in Il Bluff globale, Limes, 4/2023).

            Nell’incapacità odierna di definire una visione dell’Europa che non si riduca al puro aspetto economico o di una serie di diritti amorfi, onnicomprensivi ma non adatti a definire una identità, l’Occidente europeo viene ad avere una conflittualità interna, specchio delle tensioni mondiali, tirato da opposto interessi e arrotolato in confuse idee, problematiche emerse con forza dall’attuale conflitto mondiale ( F. Cardini, La deriva dell’Occidente, Laterza ed. 2023).

            La necessità del recupero comunitario di quella che Cardini chiama della “cultura del limite”, un “cambio di indirizzo” a cui preparare le future generazioni, nella ricerca “di un incremento nei campi dell’autocontrollo, della solidarietà, della sobrietà e della disciplina”(110, Cardini Cit.), come già si discute in Francia in una possibile riforma del settore scolastico.

APPENDICE

            Dopo un secolo si ripresenta un ciclo geo-strategico come nell’inizio del ‘900, acquista pertanto un particolare interesse storico il racconto breve  di Leonida Andreief “Colloquio notturno” scritto nel 1915, in cui si immagina un confronto tra Guglielmo II e un soldato belga prigioniero, professore di diritto di origine russa ed ex rivoluzionario, in una notte dell’estate del 1914 durante l’invasione del Belgio.

            Nel dialogo emerge l’animo russo, la difficoltà di distinguere tra il bene e il male nella loro sovrapposizione, un fatalismo sui destini umani nella durezza della quotidianità, ma anche il dispotismo che consegue dalla volontà di potenza.

            Fino a quello che Guglielmo chiama “sentimentalismo a buon mercato della vecchia stupida Europa ipocrita che è uscita di senno per la vecchiaia e lo stravizio”, per questo verrà soppressa dallo stesso imperatore.

            Nel colloquio vengono evidenziati tre grandi significazioni:

“L’amoralismo filosofico tedesco. La mostruosità del problema della guerra. I valori sociali nella pratica e nella teoria”.

            Interessante è una pagina del diario  personale di Andreief del 1914, relativa alla sera del 15 agosto quando il fratello di Leonida improvvisamente arriva a casa per un rapido saluto, deve raggiungere il fronte, è qui solo per un’ora, verso mezzanotte sarà a Reval dove con un treno proseguirà, il fratello gli chiede “Per dove? Egli sorrise come si sorride in simili casi: certo, laggiù, al di là di Varsavia. Proprio nell’incendio. Così fra un’ora egli raggiungerà questo grigio militare che va verso Varsavia. Non si sarebbe voluto parlare, ma condurlo per la casa, per il giardino, da tutta la nostra gente, perché salutasse tutti perché vedesse tutti, e non consolarlo ma dirgli : Andriuscia,  dunque è molto possibile che ti uccidano : guarda come si battono laggiù, …”

martedì 19 marzo 2024

Rivista QUADERNI, Anno LXXXIV, Supplemento XXXI, 2023, n.4, Ottobre - Dicembre 2023, 30° della Rivista

La Rivista può essere chiesta a: sqgreteriagenerale@istitutonastroazzurro.org





 

sabato 9 marzo 2024

Valentina TRogu Aspetto sociologico della deterrenza nucleare

 


In sociologia la deterrenza viene studiata nell’ambito delle teorie della devianza inserite in un contesto criminologico. Lo studio delle problematiche legate all’ordine sociale ha portato alla definizione di una prima teoria sociologica basata sull’analisi dei comportamenti criminali dovuti a scelte deliberate. Tale teoria della scelta razionale[1] dei criminologi Cornish e Clarke presuppone che le persone tendano ad attuare strategie individuali libere nella decisione di compiere un’azione criminale valutando i benefici che si potrebbero trarre dalla condotta deviante. Un insieme di elementi, dunque, interviene nel processo decisionale in base al quale si effettua un’accurata analisi dei costi e dei benefici dell’opportunità criminale. Le variabili dipenderanno dalle abilità cognitive e dalle informazioni a disposizione del criminale e risulteranno determinanti nell’elaborazione del modello strategico da seguire. Secondo questa teoria, le persone agiscono per libero arbitrio ma è necessario introdurre nello schema altri fattori come il background personale – competenze, capacità individuali, personalità, educazione – e i fattori situazionali – dipendenze da alcool e droghe, forti pressioni esterne, estrema vulnerabilità del soggetto. Le scelte dei soggetti, poi, sono legate a due fondamentali presupposti, la disorganizzazione sociale e il controllo sociale. Il primo concetto porta alla constatazione che i desideri e bisogni personali possano essere soddisfatti mediante azioni illegali. Il secondo presupposto, invece, sottolinea il calcolo di costi e benefici dell’azione deviante o legale con conseguente scelta della via più conveniente da seguire. Con il concetto del controllo sociale si introduce la Teoria del deterrente, sviluppata intorno alla metà del XX secolo. Secondo questa teoria, l’idea di una punizione dovrebbe fungere da deterrente all’attuazione di azioni criminali. Non si nasce criminale ma la devianza è frutto di scelte legate ai benefici e ai costi. Nel momento in cui la possibilità di incorrere in una punizione dovesse risultare maggiore rispetto al raggiungimento di presunti benefici, il soggetto sarà portato ad invertire la tendenza deviante e rispetterà la legge. Ad una sanzione più severa corrisponderà, secondo i teorici della deterrenza, un potere deterrente più elevato, ci si allontana, dunque, dal pensiero di Beccaria[2] secondo il quale la gravità del reato e la pena dovessero equivalersi.

Partendo dalle tematiche della devianza sociale che sottolineano l’intervento razionale e irrazionale nell’orientamento del processo decisionale si arriva a considerare l’importanza che il pensiero di una possibile azione della controparte detiene per il compimento di specifiche scelte. Il riferimento è alla Teoria dei giochi e alla spiegazione sociologica che ne viene data. La lettura vede le decisioni strategiche legate a ciò che fa o che potrebbe fare l’altro. L’attenzione si concentra, dunque, sull’interdipendenza dei giocatori e sulle attese che ognuno ha nei confronti dell’avversario/alleato.

Allargando i concetti citati ai contesti internazionali, l’uso della deterrenza tra nazioni, così come è avvenuto durante il periodo dell’Equilibrio del terrore, diventa più comprensibile. Le minacce del compimento di una azione dai risvolti devastanti sono servite per prevenire tali azioni prima che accadessero. Al pari del singolo individuo, uno Stato valuta costi e benefici di una azione intesi in termini di guadagni, aspettative, ammontare dei costi materiali e non, la possibilità di una perdita del proprio status e del potere rivestito, tutti elementi che saranno determinanti nel stabilire l’azione successiva. In conclusione, se le minacce e i calcoli strategici dovessero colpire nel segno come conseguenza  si avrà un’inazione dell’altro.



[1] Il problema della scelta razionale (Rational Choice) non é di origine sociologica, essendo stato elaborato all'interno dell'economia politica

[2] Cesare BECCARIA, Dei delitti e delle pene - Milano, Rizzoli 1950

giovedì 29 febbraio 2024

La Gestione delle crisi internazionali

 


Ten. cpl. Art. Pe.  Sergio Benedetto Sabetta

 

            L’attuale crisi politico ed economica che investe tutto l’arco del Mediterraneo unita alla pressione demografica dalle aree del Sud, i traffici che questo ha permesso di sviluppare, hanno portato al riemergere delle problematiche di intervento già manifestatesi nei primi anni ’90 del Novecento con il crollo del sistema bipolare.

L’inserirsi di una ulteriore destabilizzazione politica in Ucraina e le rivendicazioni di nuovi potentati locali nelle varie parti del globo hanno reso ulteriormente complicata la scena, a questo si è aggiunta una profonda crisi economica unita al diffondersi di una tecnologia di comunicazione più ampia e a buon mercato, disponibile globalmente in settori sempre più ampi con conseguenti effetti di vasi comunicanti, è riemerso quindi l’interesse ad una analisi non solo economica dello scenario mondiale, secondo un filone che dalla crisi del “Golfo Persico” dei primi anni ‘90 del Novecento si succede fino all’attuale crisi del bacino del Mediterraneo.       

            Il nostro sistema internazionale è articolato in una dimensione globale ed in una dimensione regionale, i due sistemi hanno caratteri peculiari in quanto si organizzano con regole e istituzioni diverse, fino agli anni Cinquanta la prevalenza era costituita dalla dimensione globale conseguenza dei vasti imperi coloniali e dell’accentramento del potere economico, tecnologico e militare nelle mani di pochi stati, con la decolonizzazione sono entrate nella scena internazionale innumerevoli nuove entità statali, le quali hanno progressivamente rivendicato un proprio ambito di influenza.

            Si è cominciato a parlare di regionalizzazione del sistema internazione e ci si è accorti di una diversa sensibilità dei sottosistemi geografici ai processi in atto del sistema globale. I criteri per la delimitazione di queste regioni, sono la continuità e l’isolamento geografico, la comunità storico-culturale ed economica, infine una elevata interdipendenza politica.

            Le organizzazioni locali relazionano tra loro in un’altalena di cooperazione - conflittualità e quanto maggiore è la cooperazione tanto minore è la possibilità di influenza nella regione per potenze esterne, comunque si dovrà sempre tenere presente che,in ultima analisi, sono sempre le èlite degli Stati regionali a dettare i criteri del loro agire, anche in opposizione ai dettati dei governi esterni, occorre, inoltre, considerare l’ipotesi sempre più frequente che uno stesso Stato sia coinvolto in più regioni, come può accadere nel Mediterraneo o nel famoso “arco della crisi” che va dal Mar Rosso al Golfo Persico fino a ricongiungersi col Mediterraneo.

            Si può concludere affermando che la politica internazionale di un’area è la risultante delle politiche esterne degli stati che ne fanno parte e dei processi e delle pressioni politiche operanti nelle regioni confinanti, ma è anche causa, in quanto retroagisce, delle politiche delle regioni circostanti.

Secondo la concezione classica, derivante dalla Seconda Guerra Mondiale, del sistema internazionale come sistema rigidamente bipolare, i conflitti erano originati dallo scontro Est – Ovest, sarebbero stati in altre parole gli interessi delle due Superpotenze a incoraggiare e ingigantire gli scontri regionali.

            Dalla fine del bipolarismo altre cause intervengono a spiegare l’andamento della conflittualità internazionale, come l’emergere di potenze regionali su nuove basi ideologiche o l’aumento del commercio delle armi, quello che è comunque evidente è la perdita da parte delle Superpotenze e degli altri Stati centrali al sistema internazionale , della capacità di gestire e controllare le crisi regionali periferiche.

Vi è una discontinuità delle regole della sicurezza con cui si organizza il sistema e non essendovi validi accordi collettivi di difesa o regole di tutela gerarchicamente definite, prevale l’autotutela territoriale e politica, con la conseguente instabilità del sistema, se poi vi sono condizioni per rivalità egemoniche locali che si inseriscono su diverse ideologie di legittimazione dei regimi e delle gerarchie locali, il quadro si fa cupo.

            In breve,  le conflittualità locali sono conseguenza di una evoluzione delle politiche internazionali locali, che dopo una fase di coalizione delle forze nazionali al fine di costruire il nuovo apparato statale fanno emergere i problemi culturali, etnici e religiosi difficilmente gestibili dai giovani organismi statali troppo deboli organizzativamente ed economicamente. Nello stesso tempo gli Stati regionali più solidi cominciano a perseguire una politica estera più incisiva per affermare una propria sfera di influenza, magari in contrasto con le potenze globali e del centro del sistema.

            Se non ci si vuole perdere nell’analisi dei conflitti locali, occorre sempre tenere presente che lo Stato come qualsiasi organismo vivente, tende ad assicurarsi le condizioni migliori per la sopravvivenza.

            Gli elementi vitali in quanto costitutivi sono il territorio, la popolazione e le istituzioni di Governo, quando uno di questi tre elementi viene ad essere minacciato si ha una diminuzione della “sicurezza nazionale” con conseguente crisi internazionale, necessita perciò che ogni sistema abbia regole ed istituzioni specificamente designate a garantire la sicurezza collettiva, nel difficile passaggio da comportamenti competitivi a comportamenti cooperativi.

            Una sintetica classificazione dei fattori di conflitto si può articolare in tre gruppi: fattori nazionali, intraregionali ed extraregionali.

            I primi venivano da “arbitrarie” delimitazioni territoriali in conseguenza delle quali questioni etniche, linguistiche, religiose e ideologiche sono cause di guerre. I secondi sono antagonismi storici tra Stati a causa di contrasti nei valori socio-politici fondamentali, oppure rivalità di potenza per contrasti di interessi geopolitici. I terzi derivano da interventi diretti o indiretti di potenze straniere che fomentano i contrasti locali per propri fini.

            La gestione di una crisi presenta sempre notevoli problemi, in quanto ciò che per uno Stato può essere un pericolo da contrastare, per un altro può essere un’opportunità da sfruttare, se a questo si aggiunge la molteplicità dei protagonisti si può capire perché il concetto di controllo della crisi è per molti aspetti fuorviante ed eccessivamente ottimistico.

            Fattore fondamentale di una crisi è il fattore tempo, che può indurre le autorità responsabili a risposte affrettate, tali da determinare l’uso della forza fino al precipitare in un conflitto. Collegati strettamente al fattore tempo vi è quello dell’importanza delle poste in gioco, tali da fare accettare rischi elevati, entrambi poi (tempo e posta in gioco) possono dare origine ad una notevole tensione che può tradursi operativamente in una “escalation” irreversibile.

In tutto questo la complicazione consiste nella tentazione di sfruttare una presunta maggiore sensibilità dell’avversario ai pericoli del confronto, specialmente se i vantaggi appaiono molto allettanti, naturalmente tutto viene complicato dalla presenza di alleanze, in cui ciascun membro porta propri interessi e proprie valutazioni.

            Si capisce la difficoltà di una sagace gestione delle crisi in cui il prevalere del compromesso sarà la risultante di un difficile equilibrio di rinunce e di acquisizioni, infatti “la gestione della crisi è essenzialmente un tentativo di bilanciare e conciliare i diversi elementi” (Phill Williams). La chiave sta nel costringere con cautela e nel conciliare a buon mercato, naturalmente il problema è che quanto più lieve sarà la coercizione, tanto minore sarà la possibilità di ottenere concessioni o di costringere l’avversario a desistere dai suoi propositi.

            Ugualmente quanto più il compromesso è a buon mercato, tanto minori saranno le probabilità di persuadere l’avversario sulla convenienza delle offerte a lui pervenute (Glenn Snyder - Paul-Diesing).

            Il primo passo per i vertici politici in presenza di una crisi è di stabilirne la tipologia, ossia se si tratta di una crisi tipo Monaco (1938), con la necessità di rintuzzare una seria minaccia dell’avversario, o piuttosto di una simile a Sarayevo (1914), con la conseguente necessità di impedire che gli avvenimenti sfuggano dal controllo, il criterio di valutazione potrà essere la volontà o meno di creare lo stato di crisi anche se un tale esame può essere dei più difficili ed ingannevoli.

Il seguente passo dell’attivazione dei sistemi di sicurezza, senza tuttavia precipitare la crisi, è dei più essenziali, come del resto lo è l’attivazione dei contatti con le cancellerie alleate e contrapposte, anche se tale lavoro può essere frustrante e laborioso.

 In questa procedura, rapidissima nell’attuazione, possono crearsi momenti di scollamento tra potere politico e militare oltre che notevole stress a livello politico, tale da determinare una paralisi decisionale o misure avventate, tenendo conto della difficoltà di formulare proposte in brevissimo tempo necessarie per una seria trattativa, ma che al contempo tengano conto di tutte le dimensioni della potenza che vanno da quella politica, a quella militare, a quella economica, per non parlare dell’ideologia che sottende l’azione dell’avversario.

            Se questo è lo scenario internazionale e tali sono le dinamiche in atto in una eventuale crisi del sistema, si arguisce che ben pochi sono i mezzi giuridici a disposizione di uno Stato per garantirsi dall’aggressione di un altro Stato.

            La vecchia massima per cui l’unico mezzo a disposizione di uno Stato per imporre l’osservanza del diritto internazionale è costituito dall’autotutela, rimane purtroppo in auge.

 Quanto affermato si ricollega alla struttura della Comunità internazionale, in cui i singoli Stati sovrani riassumono tutti i poteri, né si è costituita una istituzione sovranazionale fornita di poteri e mezzi necessari per imporre l’esecuzione delle norme internazionali, anche le Nazioni Unite nella situazione politica attuale non hanno potuto modificare tale stato di cose.

            Poste queste brevi premesse si deve sottolineare che l’uso della forza non potrà mai essere indiscriminato, ma sempre proporzionato alle violenze altrui, superare questo limite fa sì che venga meno qualsiasi regola di diritto internazionale e prevalga la pura violenza bellica, intesa come fase tutta dominata dai rapporti di sola forza, deve comunque farsi una sottile distinzione tra legittima difesa e rappresaglia, in quanto diversa può essere la portata dell’azione bellica.

            Ne primo caso si tende a prevenire il danno maggiore, cosicché l’azione dell’aggredito interviene quando l’illecito è ancora in itinere, non del tutto consumato, nel secondo caso si ha uno scopo punitivo e quindi maggiore sarà l’incidenza del principio della proporzionalità.

            La moderna teoria dell’autotutela nei rapporti tra Stati ha cercato di sviluppare forme non violente, o meglio non belliche, partendo dalla tesi della dottrina positivistica tedesca formulata dallo Jellinek, la quale considerava il diritto internazionale come frutto di autolimitazione del singolo Stato, si è cercato di sviluppare l’uso della forza sul piano interno dello Stato anziché sul piano internazionale.

            Nell’ambito della propria comunità possono venire adottate quelle misure legislative o amministrative che, risolvendosi nella violazione di norme internazionali, si giustificano come prevenzione o reazione contro gli illeciti altrui.

            Rientra in questo ambito il principio della reciprocità, per cui se uno Stato straniero prevede norme contrarie al diritto internazionale o peggio assume condotte illegittime, la sua condotta costituisce presupposto per analoghe misure di ritorsione, logicamente questo principio avrà una maggiore restrizione nel caso di vincolo di solidarietà e di collaborazione tra Stati membri di un’organizzazione.

Il ricorso alla autotutela ed alla reazione con la propria inadempienza a quella altrui, costituisce extrema ratio, perseguibile solo dopo che tutte le altre strade offerte dall’organizzazione per ottenere giustizia sono state esperite.

            Siamo così giunti al concetto dell’arbitrato, il quale riposa sulla volontà e quindi sull’accordo di tutti gli Stati parti di una controversia, infatti in caso di disaccordo non è possibile costringere uno Stato a sottoporsi a giudizio, l’istituto si è notevolmente evoluto a partire dalla metà del secolo scorso, mantenendo il carattere volontaristico per le parti coinvolte, ma creando al contempo meccanismi atti a favorire la formazione dell’accordo e istituzionalizzando la funzione arbitrale.

            L’avvio all’istituzionalizzazione si ha con la Corte Permanente di Arbitrato, creata dalle Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 sulla guerra terrestre, peraltro l’istituzionalizzazione è minima trattandosi di un elenco di giudici, periodicamente aggiornato, tra i quali gli Stati possono scegliere i singoli membri per la formazione del collegio arbitrale, anche le regole di procedura non sono molte e possono cedere di fronte a quelle eventualmente stabilite dalle Parti.

            Con il sorgere delle Nazioni Unite nel 1945, si è affiancata alla Corte dell’Aja un nuovo istituto detto Corte Internazionale di Giustizia, avente sempre sede all’Aja, che ha sostituito la Corte Permanente di Giustizia Internazionale della Società delle Nazioni, essa funziona sulla base di uno Statuto annesso alla Carta dell’ ONU, ricalcante lo statuto della vecchia Corte Internazionale.

            Trattasi di un corpo permanente di giudici, eletti dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza, che giudica in base a precise e complesse regole di procedura inderogabili dalle parti, si tratta pur sempre di un tribunale arbitrale che opera sul presupposto di un accordo tra tutti gli Stati in controversia.

            La ricomposizione di controversie mediante arbitrati o reazioni non violente non ha dato sempre buoni risultati se le trattative non vengono accompagnate da dimostrazioni di forza o dalla presenza di corpi armati, inoltre la palese insufficienza dimostrata dagli  organismi internazionali, con particolare riferimento alle Nazioni Unite in determinate circostanze nelle quali alta era la posta in gioco, ha spinto le superpotenze e gli altri Stati centrali del sistema a dotarsi di forze di intervento rapido, queste non sono altro che il risultato della nuova “conflittualità diffusa” che si innesta nei nuovi rapporti Nord/Sud.

            Le forze di intervento rapido non si differenziano sostanzialmente dalle forze multinazionali, in quanto queste possono essere formate mettendo insieme sotto un unico comando reparti tratti dalle prime, al contrario i contingenti dell’O.N.U. si differenziano notevolmente essendo prevalentemente forniti da unità di supporto degli Eserciti di campagna.

            Il giudizio su tali forze di rapido intervento non può che essere positivo per il fine ultimo del mantenimento della pace, almeno fino a quando i meccanismi istituzionali delle Nazioni Unite non saranno in grado di sostituirle e sempre che il loro utilizzo non debordi dagli stretti fini iniziali.

            Si può concludere con le parole di Maddalena sul principio di moderazione e il conseguente ordine che l’Atene imperiale di Pericle conteneva, in contrapposizione al “delirio di onnipotenza” manifestato dai suoi successori fino alla tragica spedizione di Alcibiade, in equilibrio tra la giustizia assoluta e l’ingiustizia assoluta (entrambe impossibili)”.

            L’impero, nato dalla forza e per la forza, è ingiusto di per sé, tuttavia seppure ingiusto, se è retto con moderazione, attenua l’inevitabile ingiustizia ponendo ordine (ordine relativo ) là dov’è disordine.

 L’impero retto con moderazione è insomma, in questo mondo dove regna la forza, creatore della massima utilità possibile concessa all’uomo ( Maddalena).

 

            Estratto dalla relazione dell’autore alla XLII Sessione del Centro Alti Studi della Difesa - ROMA   

martedì 20 febbraio 2024

To apeiron, ovvero l’essere “indefinito” Riflessi sull’identità nazionale

 

ESSERE  NAZIONE

 

 

Te. Cpl. Art. Pe. Sergio  Benedetto  Sabetta

 

“ Il termine ellenico to apeiron non significa solo infinitamente lungo/grande, ma anche indefinibile, complesso al di là di ogni ragionevolezza, ciò-che-non-può-essere-gestito” ( David Foster Wallace – 39- Tutto di più, Codice ed.)

 

 

         Osserva Cardini che nella cultura vi è un trend con una “concentrazione qualitativa ma forte diminuzione qualitativa di chi detiene una preparazione medio – alta, proletarizzazione culturale in fortissimo aumento, crescita dell’analfabetismo di ritorno e della demobilitazione intellettuale” (109), che si accompagna ad una “generale tendenza alla sparizione dei ceti medi e alla proletarizzazione delle “moltitudini”.

         In questa mancanza di un’idea di Occidente vi è il disperdersi senza indirizzo, privi di una “cultura del limite” che ne costituisca il contenitore, se, come sottolinea Edward O. Wilson, “all’interno dei gruppi gli individui egoisti vincono sugli altruisti”, ma gruppi quelli che contengono altruisti vincono su quelli formati da egoisti” ( 79).

         Vi è pertanto la necessità di un equilibrio fondato su un’idea riconosciuta di Occidente con i suoi valori identitari.

         Bauman parla di una “decostruzione della morte” e di una parallela “decostruzione dell’immortalità”, in cui ad uno spostare l’attenzione sulle cause della morte, che diventano comunque evitabili e razionalmente aggredibili, si contrappone un annullamento dell’idea di eternità, in un presente fatto di momenti, dove non vi è più distinzione fra transitorio e duraturo, dove la storia e l’eterno, il prima e il dopo vengono a volatilizzarsi.

         Viene annullata la distinzione tra il presente dell’uomo e l’infinito di Dio, nella confusione che si crea cessa il concetto di futuro, il ponte tra presente e infinito luogo d’incontro tra la finitezza umana e la sua coscienza della divinità, nel volere ridurre tutto al presente, al futuro prossimo, si vuole negare la probabilità di un infinito immanente e causale sui destini umani, trasformandosi l’insieme in un “indefinito” privo di freccia temporale.

         La scissione che è avvenuta tra mente e corpo a partire da Descartes ha favorito le “decostruzioni” indicate da Bauman, la distinzione fra proprietà attribuite ai soli eventi mentali e quelle proprie degli eventi fisici ha fatto sì che il corpo, privo e staccato dalle manifestazioni di intenzionalità mentali, è stato visto come una macchina da riparare i cui guasti sono razionalmente aggredibili, fino a giungere ad un “naturalismo eliminazionalista” che superando la stessa “teoria dell’identità” ha negato l’esistenza dei fenomeni mentali autonomi dai concetti fisici ( Feigl – Place – Feyerabend), invertendo l’antico prevalere della mente sul corpo.

         Il rapporto tra mente e corpo è stato, altresì, visto in termini esterni al sistema, nei quali impulsi provenienti da differenti ambienti danno luogo a interpretazioni differenti del sistema stesso, il tutto, quindi, manovrabile completamente dal e mediante il contesto ambientale ( Putnam).

         L’intrinseca capacità della natura di elaborare informazioni comporta una complessità del sistema con una conseguente ridotta capacità di prevedibilità delle future informazioni, lo stesso vuoto tra un’informazione e l’altra  modifica e interpreta l’informazione trasmessa, ma nell’uomo vi è l’ulteriore complessità determinata dalla moltitudine di linguaggi come mezzi di trasmissione dell’informazione.

         Osserva  Lloyd che è più semplice quantificare l’informazione, come energia o denaro, che qualificarla e definirla correttamente, d’altronde l’ambiguità del linguaggio umano da elemento di disturbo del sistema diventa di per sé stesso un ulteriore mezzo espressivo, che arricchisce le possibilità di trasmissione a fronte della non conoscenza dei modi di elaborazione delle informazioni da parte della mente umana.

         Molta informazione  è invisibile senza la necessità di alcun intervento umano, se a questo aggiungiamo la logica e una certa autoreferenzialità si ottiene l’imprevedibilità delle azioni umane.

Il sogno della certezza, della prevedibilità solo presente e quindi del tutto controllabile delle nostre vite ci fornisce la certezza economica per una totalità dei consumi, in cui l’accumulo mediante risparmio per un arco di tempo incerto perde le caratteristiche della virtù invertendo i valori, d’altronde la stessa finanza ha provveduto a sbriciolare le certezze future.

         Il nostro finito costeggia senza posa l’infinito, l’unità uomo è inscatolata in infinite strutture sommariamente identiche che tuttavia variano la “risoluzione” dell’immagine su scale differenti in una proiezione indefinita del tempo, quello che può anche definirsi un “ideale a infinito interno” (Luminet - Lachiéze - Rey), in questa lotta perenne tra finito e intuizione dobbiamo occuparci non solo e tanto dell’esistenza quanto di quello che Russell definisce una “possibilità di esistenza”, frutto di una composizione infinita di trasformazioni infinitesimali.

         Il tempo risultato del continuo cambiamento della configurazione del sistema viene da noi percepito in funzione della nostra posizione nel sistema che ci comprende, la somma dei nostri diverso “Adesso” in cui la nostra esperienza è immersa crea le varie probabilità che possiamo percepire (Barbour), ma noi tendiamo a vivere nel qui ed ora quale risultato di una causalità orizzontale della totalità delle cose, così che per noi le cose non diventano ma sono.

         Viene, pertanto, negata la probabilità degli eventi per un immanentismo totale senza futuro, ma anche senza la possibilità del rischio della morte e dell’impotenza che diventa antieconomica e quindi da negare, ogni azione umana viene così imperniata nella negazione della possibilità del cessare, nell’ esistere di un continuo presente che rinasce quale idea ad ogni costruzione dell’uomo, da quella economica a quella giuridico – sociale e quindi politica.

         Vi è pertanto uno scollamento sul sentimento di identità nazionale, la Nazione quale società degli antenati legata ad un territorio tra passato e futuro, questa viene a sciogliersi in una globalità indefinita, nell’interstatualità di un internazionalismo obliquo e indeterminato, nella cui generale incertezza rientra anche il problema demografico, ridotto anch’esso in gran parte ad un puro aspetto economico individuale, non come investimento collettivo.

         In questo sciogliersi dell’identità dell’individuo nell’indefinito, utile ad un determinato modello economico, nasce inaspettatamente lo scontro, il conflitto con le diverse realtà culturali esistenti e il loro riaffermarsi anche in termini bellici.

 

Bibliografia

 

·        AA.VV., Popolazione e potere, Aspenia, 2023;

·        Z. Bauman, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, 1995;

·        J. Barbour, La fine del tempo, Einaudi, 2003;

·        F. Cardini, La deriva dell’Occidente, Laterza, 2023;

·        L. Geymonat, storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti,1996;

·        S. Lloyd, Il programma dell’universo, Einaudi, 2006;

·        J.P. Luminet, M. Lachiéze-Rey, Finito o infinito?, Cortina ed., 2006;

·        Edward O. Wilson, Le origini profonde delle società umane, Raffaello Cortina Ed., 2020.

        

lunedì 12 febbraio 2024

Daniele di Placiodo. Premessa alla tesi di laurea Master di 1° Livello in Terrorismo ed Anti terrorismo Internazionale

 

IL CONTRIBUTO DELL’ESERCITO ITALIANO ALLE MISSIONI NATO DAGLI ANNI 2000

Premessa

 

Negli anni che seguirono la fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia contribuì alla fondazione di numerose Organizzazioni Internazionali il cui scopo era quello di aumentare la cooperazione tra i Paesi aderenti in diversi ambiti. Nel marzo del 1949, il Consiglio dei Ministri della neonata Repubblica Italiana si pronunciò in senso unanime per “l’accessione in via di massima al Patto atlantico[1]”, esprimendo la volontà di aderire come Paese fondatore alla North Atlantic Treaty Organization (NATO), compiendo quella che fu definita “una lungimirante scelta di politica estera per garantire la pace nella sicurezza” [2].

Altro passaggio fondamentale per l’evoluzione dello strumento militare italiano fu l’adesione all’Organizzazione delle Nazioni Unite, avvenuta nel dicembre del 1955: circa trent’anni più tardi, infatti, le prime operazioni di peacekeeping in cui le Forze Armate italiane furono impiegate fuori dai confini nazionali, furono condotte sotto l’egida dell’ONU in Libano (missione UNIFIL, 1982-84), Somalia (missioni UNITAF e UNOSOM, 1992-94 e l’Operazione UNITED SHIELD del 1995) e Mozambico (missione ONUMOZ, 1993-94); furono queste le prime occasioni in cui le Forze Armate italiane furono chiamate ad esprimere le proprie capacità di schierare e supportare logisticamente grandi contingenti formati da un elevato numero di uomini, mezzi e materiali stanziati a migliaia di chilometri dall’Italia.

Anche le operazioni NATO condotte nei Balcani nella seconda metà degli anni ‘90 costituirono degli importanti banchi di prova per le Forze Armate italiane: in Bosnia, con la partecipazione alla United Nation Protection Force - UNPROROF (1993), alla Implementation Force - IFOR (1995) e alla sua successiva riconfigurazione in Stabilization Force SFOR (dal 1996), e in Kosovo, con la partecipazione alla Kosovo Force – KFOR (iniziata nel 1999 e tutt’ora in corso), Esercito, Marina, Aeronautica e l’Arma dei Carabinieri contribuirono con diverse migliaia di militari alla formazione dei contingenti internazionali di peacekeeping.

Fu probabilmente sotto l’influsso di questi numerosi impegni internazionali che venne concretizzata l’importante idea di sospendere il servizio obbligatorio di leva per alimentare le Forze Armate esclusivamente con personale professionista volontario: come dichiarò nell’ottobre del 2000 l’allora Ministro della Difesa, l’Onorevole Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica italiana, all’epoca si era consolidata la necessità di avere delle Forze Armate “adeguate alle esigenze contemporanee, che non sono di guerra, bensì di strategia di difesa della pace e dei diritti umani[3]”.

In linea con la riorganizzazione in atto in seno alla NATO in quel periodo storico, al fine di sviluppare l’identità di sicurezza e difesa europea e rafforzare l’efficacia militare dell’Alleanza, questa decisione permetterà all’Italia nel corso degli anni successivi di dotarsi di Forze Armate in grado di assolvere ai nuovi compiti internazionali, finalizzati a favorire la stabilità della sicurezza euro-atlantica attraverso il rafforzamento di istituzioni democratiche, senza tralasciare il classico compito di difesa e deterrenza.

Grazie a questi importanti cambiamenti, le Forze Armate italiane poterono partecipare da protagoniste nelle sfide alla stabilità internazionale che si presentarono dopo l’attacco terroristico avvenuto negli Stati Uniti l’11 settembre del 2001: fu di enorme peso il contributo italiano nelle missioni in ambito NATO che si svilupparono in risposta ai sopra citati attentanti; in particolare l’Esercito Italiano fu tra i principali contributori in termini numerici per quanto riguarda personale, mezzi e materiali impiegati nelle complesse missioni svolte in scenari operativi ad alta intensità in Iraq e Afghanistan.

L’enorme sforzo profuso nel corso dei lunghi anni di operazioni hanno permesso all’Esercito Italiano di accumulare una profonda esperienza nella pianificazione e gestione di operazioni condotte in collaborazione con le forze armate dei Paesi della NATO a grandi distanze dal territorio nazionale.

Terminate le operazioni di contrasto al terrorismo, questa esperienza, riconosciuta a livello internazionale e maturata anche grazie al sacrificio dei soldati caduti, a seguito delle attività della Federazione Russa iniziate con l’occupazione della penisola della Crimea, è stata nuovamente messa a disposizione della NATO per la sorveglianza e la difesa del confine orientale dell’Alleanza, attraverso la partecipazione alle operazioni di presenza e deterrenza denominate “Enhanced Forward Presence (EFP)” ed “Enhanced Vigilance Activity (EVA)”.

 Tesi di laurea. 

La Tesi è presso Emeroteca del Cesvam consultabile solo con il consenso scritto dell'Autore,



[1] L. ROMANINI, Breve storia dell’ostruzionismo nel Parlamento Italiano, Carocci Editore, Roma, 2017, p. 145

[2] www.avvenire.it

[3] www.repubblica.it


mercoledì 31 gennaio 2024

Antonio Trogu. Paesi del club dell'atomo

 

Stati con armi nucleari

 

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Per “Stati con armi nucleari" si intendono quelle nazioni che hanno costruito, hanno testato e sono attualmente in possesso di armi nucleari di qualunque tipo, in base ai termini del Trattato di non proliferazione nucleare(TNP), entrato in vigore il 5 marzo 1970. Sono quindi considerati ufficialmente "Stati con armi nucleari" (nuclear weapons states o NWS) quelle nazioni che hanno assemblato e testato ordigni nucleari prima del 1º gennaio 1967: Stati Uniti d'AmericaRussia (succeduta all'Unione Sovietica), Regno UnitoFrancia e Cina, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.  Stati Uniti e Russia possiedono circa il 90 per cento del totale di armi nucleari al mondo. Seguono le altre tre potenze che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, e a cui il Trattato di non proliferazione nucleare del 1970 riconosce il diritto di possedere tali armi.

sabato 20 gennaio 2024

I dieci maggiori Paesi venditori di Armi


 Gli Stati Uniti è il paese che  ha una quota di vendita di oltre il 40% Tranne la Corea del Sud e la Cina, tutti gli altri sette paesi sono europei, considerando Israele nell'orbita europea-occidentale. L'Italia si colloca a metà in questa graduatoria.


 Fonte Le mondi diplomatique, Anno XXXI, n. 1 -  Gennaio 2024.

mercoledì 10 gennaio 2024

Antonio TRogu Illusione dell'equilibrio nucleare

 


L’obiettivo era raggiungere l'equilibrio atomico, cioè un livello "sufficiente" di capacità di distruzione reciproca (MAD, Mutual Assured Destruction), in modo tale che ogni variazione nel numero di missili e testate non comportasse più effetti pratici nei confronti del nemico. Per tale motivo USA e URSS iniziarono a temere la concreta possibilità che l'avversario li superasse negli armamenti e nelle dottrine tipiche della guerra "classica", tendendo alla supremazia in campo tattico e nella politica delle alleanze. In tale contesto, pertanto, si rischiava di indirizzare la propria economia di guerra su di un sistema che poteva rimanere inattivo come uno spauracchio, mentre forze insignificanti, con armi tecnologicamente superate ma efficaci se usate in modo tradizionale, sarebbero state in grado di colpire senza scatenare l'inferno atomico. Da qui una nuova teoria basata sulla necessità di raggiungere la superiorità quantitativa e tecnologica a tutto spettro, con maggiore mobilità, capacità d'anticipo, proiezione della potenza a distanza, dispiegamento di intelligence sul territorio e sulle reti di comunicazione.

Dal punto di vista degli apparati industriali-militari, lo sviluppo della competizione tra coalizioni è stato ovviamente coinvolgente e anzi travolgente; il loro obiettivo non è più stato l'equilibrio del terrore non appena si è avvertita una crisi dal punto di vista dell'economia e dei rapporti fra nazioni, ma la ricerca spasmodica comunque di una superiorità. Tuttavia l'equilibrio è sempre stato precario, essendo legato a troppe variabili dipendenti non solo dalle differenze economiche, politiche e ideologiche ma in realtà dalla contrapposizione di nazioni capitalistiche concorrenti con i loro rispettivi territori di caccia.

Nel 1963 USA, URSS e Gran Bretagna arrivarono finalmente ad un accordo, il cosiddetto “Partial Test Ban Treaty”, per fare cessare i test nucleari terrestri e subacquei, ma non quelli sotterranei.

I negoziati fra americani e sovietici sull'impegno a sospendere l'attività di sperimentazione nucleare, rappresentarono una svolta nei rapporti Est-Ovest. Il testo offre un'attenta ricostruzione dei primi passi compiuti da Stati Uniti e Unione Sovietica verso il superamento di uno dei periodi più tesi della Guerra Fredda attraverso le trattative che portarono alla firma del primo accordo per la messa al bando degli esperimenti nucleari.  L'emergenza nucleare poteva dirsi conclusa, si ricompose il quadro delle relazioni fra le due superpotenze nel momento in cui emergeva il comune interesse a frenare la diffusione degli arsenali nucleari e a tenere a bada le velleità di indipendenza e autonomia dei rispettivi alleati. Era comunque chiaro che fin quando ci fosse stato anche un solo ordigno la minaccia per l'umanità sarebbe proseguita. In questo contesto destarono apprensione i ripetuti esperimenti nucleari della Francia nell'atollo di Mururoa, iniziati nel 1966 e terminati nel 1996.

Negli anni sessanta all'utilizzo dell'espressione “Era atomica” si iniziò a preferire quello di “Era spaziale”, aperta ufficialmente dal lancio dello Sputnik nello spazio, nel 1957. Se nel 1959, secondo l'Agenzia statunitense pubblica per sondaggi d'opinione

 Gallup, la percentuale di cittadini americani preoccupati per un'imminente guerra nucleare è del 64%, nel 1965 si scende al 16%.